domenica 8 dicembre 2013

Altheo "Spot": Marylin Monroe per Chanel N.5.





Un ritorno al passato per Chanel che nella prossima campagna del profumo icona della maison,Chanel N° 5, farà rivivere Marylin Monroe. L’indiscrezione, raccolta dall’edizione inglese di Cosmopolitan, sarà confermata con il lancio, previsto a dicembre. La diva, che divenne testimonial inconsapevole della fragranza, tornerà sulle pagine dei media e in video nello scatto che realizzò Ed Feingersh nel 1955, ritraendola mentre abbracciava una boccetta del suo profumo preferito. Le sue parole e la confessione di indossare solo due gocce del profumo per andare a letto, saranno la chicca che completerà la campagna.
Chanel rompe ancora una volta gli schemi per quello è che la sua icona nell’ambito della profumeria. Lo scorso anno era toccato a Brad Pitt, primo testimonial maschile del profumo: questa volta è la diva per eccellenza a rappresentare il mondo di Chanel N°5 in una campagna all’insegna del passato.


Il tempo non ha scalfito il fascino e il glamour di Marylin Monroe che rimane a distanza di anni dalla sua scomparsa un’icona di bellezza come poche al mondo. La sua carriera, le sue parole, i suoi tormenti l’hanno eletta una delle dive in assoluto del mondo del cinema. Le maison di moda spesso le dedicano pezzi delle loro collezioni , in onore di uno stile che ha segnato la storia del costume. Con la nuova campagna Chanel rende ufficiale quel rapporto speciale che ha legato per anni il profumo all’attrice.
Nel 1960, Marylin venne intervistata da Georges Belmont, caporedattore di Marie-Claire. Nel corso della conversazione, la diva confessa di ricevere spesso domande molto personali: “Per esempio: ‘Cosa indossa per andare a letto? Un pigiama? La parte sotto del pigiama? Una camicia da notte?’ Allora rispondo ‘Chanel N.5′, perché è la verità! Capisce, non voglio dire ‘nuda’. Ma è la verità“.
La maison è riuscita a trovare negli archivi delle star, il materiale audio originale dell’intervista: un’occasione imperdibile per sancire ufficialmente il rapporto unico tra l’attrice e il profumo della maison.
La registrazione e la foto del 1955 saranno il cuore della campagna, che porterà Marylin Monroe sui media di tutto il mondo, a celebrare una diva indimenticabile e il suo profumo preferito, Chanel N°5.



Altheo "Visioni musicali" di Giammarco Pizzutelli.Youth Lagoon – The Year Of Hibernation / Wondrous Bughouse







Visioni musicali di Giammarco Pizzutelli






Trevor Powers, nato californiano, cresciuto nell’ Idaho, è il nome che si nasconde dietro lo pseudonimo di Youth Lagoon: un compositore polistrumentista in attività dal 2010.
Quella di Youth Lagoon è una musica (prima di ogni altra, superflua, etichetta) introspettiva.

The Year Of Hibernation (Fat Possum, 2011) è un coro di voci rarefatte ed eteree, una sofferenza contenuta in quattro mura, tenuta a bada da un sogno sbiadito tendente allaWille zur Macht che si rispecchia in tracce come Afternoon e Montana, fatte di crescendo e ritmiche incalzanti, memori di echi sicuramente post-rock.
L’ intero album-debutto del giovanissimo compositore è un urlo a denti stretti, carico di rabbia ed aspettativa, un continuo contrastarsi tra gioia e dolore all’interno degli stessi brani: melodiche, rilassanti, nenie incontrano spensierate ritmiche pop in un abbraccio che si fonde in bellissimi riff dai toni prettamente lo-fi.

La voce campionata di Powers fa da collante, tiene insieme, grazie alla sua costante atmosfera eterea, tutti i pezzi (o quasi) che formano il finemente tessuto arazzo di The Year Of Hibernation.
Tracce come Cannons e 17 sono esemplari perfetti di un lo-fi elettronico, curato nei minimi dettagli nella sua semplicità, risultando in sbarazzine, orecchiabilissime melodie che si sono immeritatamente guadagnate l’etichetta di “dream-pop” , oltre alla spregiudicata accusa di “suscitare emozioni facili”.
In Daydream, invece, tutte le interessantissime idee di Powers si fondono senza portare da nessuna parte, dando vita ad una sterile, se pur piacevole, confusione.

In conclusione The Year Of Hibernation è un disco che risulta in qualche modo innovativo e, senza atteggiarsi a tale, si prende tutti i meriti di un concept. Il giro di Cannons che si ripresenta per tutta la durata del disco (spesso in modo talmente sottile da sembrare estraneo, diegetico), è tutt’altro che mancanza di inventiva o, in ogni modo, specchio della più elementare banalità, bensì una trovata studiata per mantenere viva e costante l’atmosfera che caratterizza i soli 35 minuti dell’album.

E’ doveroso aggiungere, inoltre, che in un lavoro di 35 minuti, totalmente privo di suites e composto di sole 8 tracce, per peccare di banalità bisognerebbe davvero sfiorare la composizione mononota.
The Year Of Hibernation è un disco da sentire tutto d’un fiato, scorrevole, piacevole, forma un delizioso cerchio armonico che si insinua dolcemente nelle orecchie dell’ascoltatore, incantandolo. 
Passano 2 anni, ma Trevor Powers non dimentica le accuse di monotonia e banalità, quindi mette altra carne sulla brace, troppa.

Wondrous Bughouse (Fat Possum, 2013) si apre con la distortissima e tutt’altro che musicale Trough Mind And Back: un accozzaglia di rumori che si trascina a fatica per più di due minuti, risultando più che altro fastidiosa.
Gia da Mute (la seconda traccia) possiamo renderci conto dei cambiamenti apportati da Powers. La batteria sostituisce la drum machine, la voce si fa meno rarefatta, l’atmosfera non è uniforme. Anche all’interno degli stessi brani, i cambi repentini di sonorità fanno sì che non si crei quell’alone inconfondibilmente affascinante, capace di stregarci come soloThe Year Of Hibernation riusciva.
Durante il resto dell’album i suoni, spesso “delayati“, si intrecciano in vorticose spirali ipnotiche, catturando l’ascoltatore per tutta la durata del disco e lo portano in meticolose articolazioni che, come tentacoli, lo rapiscono e lo avvolgono in un tappeto di dettagliatissime accortezze elettroniche.
Queste accortezze sono costituite da studiati rumori che si legano alla perfezione alle note e alla ritmica all’interno dei brani, rendendo spesso difficile esularli dal contesto sonoro: ne diventano parte integrante e fondamentale, scandendo, a volte, cambi di tempo e inizi di battuta.
The Bath, per prima, si fa portatrice degli echi del precedente lavoro, risultando poco omogenea rispetto a quanto ascoltato fino a questo punto. Lenta, sfuma poi in un incalzante crescendo solo per ricadere nell’ipnotica cantilena di Pelican Man.
Dropla si apre con un carillon dolcissimo, procede a rilento tra la batteria costante e la voce, dal sapore etereo ed immortale, quasi a sottolineare ogni singola parola della frase “you’ll never die” che si ripete per quasi tutta la durata del brano.
Da questo punto in poi, Wondrous Bughouse diventa una lenta discesa ipnotica fatta dininnananne lo-fi e ballate introspettive, sfociando in qualcosa di molto simile ad uncantautorato elettronico.

L’album è sicuramente ricco di estro, di idee, di innovazioni e risulta, tutto sommato, piacevole, anche se a tratti indigesto. Le accortezze sonore non riescono a coprire spesso ovvie forzature musicali, facilmente evitabili. Youth Lagoon è passato in troppo poco tempo da un suono omogeneo e concreto ad un variegato di idee che non legano bene tra di loro, risultando spesso in sconclusionate cantilene prive di un impronta vera e propria. La narrazione del disco viene assorbita dalla miriade di rumori ed effetti, rimanendo, in fin dei conti, privo di personalità.
Giammarco Pizzutelli


venerdì 6 dicembre 2013

Altheo "I capolavori del design": "Arco" di Achille Castiglioni

I capolavori del design in collaborazione con:


Arco di Achille Castiglioni. 1962.



Un'intuizione a dir poco geniale quella dei fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni.
Un progetto a prima vista molto semplice, ma che con le sue caratteristiche tecniche e con il suo innovativo design -tutt'oggi ancora molto in voga-, ha conquistato proprio tutti: dal pubblico più semplice, agli architetti più esigenti.
Il disegno progettuale nasce nel 1962 per mano dei due sopracitati architetti e designers italiani che ne affidano la produzione alla neonata azienda Flos (fondata anch'essa nel 1962 a Merano -BZ- e destinata a diventare leader nel settore dell’illuminazione d’arredo di qualità) con l'obiettivo di creare un punto luce diretto su un tavolo senza essere vincolati al soffitto.
Questa meravigliosa lampada da terra è costituita alla base da un parallelepipedo di marmo bianco del peso di 65 kg, smussato ai quattro lati e forato nel centro, per consentirne stabilità (permette l'ancoraggio dell'arco in acciaio vero e proprio) e manegevolezza (può essere spostata e trasportata inserendovi un manico di scopa).





Dalla base in marmo, si sviluppa un arco a tre settori in acciao inossidabile satinato dalla sezione a 'u', che consentono, scorrendo l'uno dentro l'altro, l'avanzamento telescopico del paralume a forma di cupola e il passaggio nascosto del filo elettrico.
La cupola terminale è formata da due parti: una fissa forata con portalampada e agganciata alla parte terminale dell'arco; un'altra mobile, una sorta di anello in alluminio movibile, in modo da poter essere regolato in base alle altezze delle tre sezioni.           

La lampada da terra "Arco" gode di un' eterna longevità. Il progetto originario del 1962, affidato alla Flos, non ha mai subito variazioni se non per gli ammodernamenti elettrici.
Il successo è confermato dai migliaia di esemplari venduti, in Italia e all'estero, e dalle svariate copie riprodotte, che hanno costretto l'azienda ad imporre, nel 2007, il copyright, a tutela di questo perfetto oggetto di design.

Dott. Antonio Del Corso






mercoledì 30 ottobre 2013

Altheo "penisola Italia": Sostieni la libreria più antica d'Italia regalandoti un libro.


Già a rischio qualche anno fa per i troppo elevati canoni di affitto, la libreria Bocca sembra ora vicina ad essere una delle prossime vittime della crisi economica di questo periodo.




Milano: a rischio chiusura la libreria Bocca, la più antica d’Italia
La drammatica richiesta di aiuto campeggia sulla vetrina della storica bottega
“La crisi rischia di farci chiudere. Sostieni la libreria più antica d’Italia regalandoti un libro”. Questa la scritta che da giorni campeggia sulla vetrina della libreria Bocca, in Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Una frase che è molto di più dello slogan pubblicitario per il lancio di una campagna di sconti messa in piedi per tentare di limitare gli effetti della crisi. 
Quella che sta vivendo la più antica bottega libraria del nostro paese (è stata fondata nel 1775 da una famiglia astignana e, quando era anche casa editrice, ha pubblicato per prima in italiano “Le mie prigioni” di Silvio Pellico e “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud) è infatti una situazione piuttosto drammatica. E che, purtroppo, sembra ben lontana da una felice soluzione. Già a rischio qualche anno fa per i troppo elevati canoni di affitto, la libreria Bocca – che annovera tra i vari riconoscimenti il titolo di “Locale storico d’Italia con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali”, la medaglia d’oro della Camera di Commercio di Milano, la qualifica di “Bottega storica” de Comune di Milano) – sembra ora vicina ad essere una delle prossime vittime della crisi economica di questo periodo.
“Ci scambiano per un museo e contrattano sul prezzo dei libri” dice Giorgio Lodetti, l'attuale proprietario, che aggiunge:  “Gli incassi degli ultimi mesi sono stati pessimi, in estate abbiamo appena superato i 1.000 euro. Così non possiamo andare avanti. Ci hanno dato lo status di locale storico: se lo siamo davvero, ci diano una mano”. Ed una mano la libreria Bocca la merita, soprattutto in quanto simbolo di un patrimonio culturale e letterario che non può e non deve essere dimenticato. Neanche a causa della crisi.
“La crisi rischia di farci chiudere. Sostieni la libreria più antica d’Italia regalandoti un libro”. Questa la scritta che da giorni campeggia sulla vetrina della libreria Bocca, in Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Una frase che è molto di più dello slogan pubblicitario per il lancio di una campagna di sconti messa in piedi per tentare di limitare gli effetti della crisi. 
Quella che sta vivendo la più antica bottega libraria del nostro paese (è stata fondata nel 1775 da una famiglia astignana e, quando era anche casa editrice, ha pubblicato per prima in italiano “Le mie prigioni” di Silvio Pellico e “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud) è infatti una situazione piuttosto drammatica. 
E che, purtroppo, sembra ben lontana da una felice soluzione. 
Già a rischio qualche anno fa per i troppo elevati canoni di affitto, la libreria Bocca,  che annovera tra i vari riconoscimenti il titolo di “Locale storico d’Italia con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali”, la medaglia d’oro della Camera di Commercio di Milano, la qualifica di “Bottega storica” de Comune di Milano), sembra ora vicina ad essere una delle prossime vittime della crisi economica di questo periodo.
“Ci scambiano per un museo e contrattano sul prezzo dei libri” dice Giorgio Lodetti, l'attuale proprietario, che aggiunge:  “Gli incassi degli ultimi mesi sono stati pessimi, in estate abbiamo appena superato i 1.000 euro. Così non possiamo andare avanti. 
Ci hanno dato lo status di locale storico: se lo siamo davvero, ci diano una mano”.
Ed una mano la libreria Bocca la merita, soprattutto in quanto simbolo di un patrimonio culturale e letterario che non può e non deve essere dimenticato. Neanche a causa della crisi.




domenica 27 ottobre 2013

Altheo "Tribute": Ciao Lou. "Il genio maledetto".


Il genio maledetto del rock, leader dei Velvet Underground, aveva 71 anni. Ad annunciare la morte la rivista Rolling Stone sul suo sito, senza specificare le cause.






Mondo della musica in lutto: è morto Lou Reed. Lo scrive Rolling Stone nel suo sito online. Il genio maledetto del rock aveva 71 anni e, per il sito della celebre rivista, le cause della morte sarebbero sconosciute. Famoso come solista e come leader dei Velvet Underground, Reer era nato negli Usa il 2 marzo del 1942, a Brooklyn.



Lou Reed, vero nome Louis Allen Reed, voleva fare il musicista ispirandosi al rock and roll. Suona la chitarra e incide presto un singolo con una band chiamata The Shades. Ma la sua attività e i suoi orientamenti sessuali preoccupano i genitori che lo mandano ad un centro psichiatrico per farlo curare e viene anche sottoposto all'elettroshock cosa che cambia profondamente la sua vita.



La nascita dei Velvet Underground - All'inizio degli anni '60 si iscrive alla Syracuse University dove studia con il poeta Delmore Schwartz che lo influenza fortemente. Si sposta poi a New York dove diventa compositore pop professionale per la Pickwick Record. Qui conosce John Cale, con il quale nel 1966 fonderà i Velvet Underground. Il famoso album con la banana in copertina arriva nel 1967, si chiama The Velvet Underground & Nico, ed è prodotto da Andy Warhol. Nel '68 esce White Light/White Heat. Ma è a Londra che nel 1970 incide il suo primo album solista Lou Reed, anche se i Velvet Undergroud si riuniranno poi nel 1993 per un grande tour mondiale.


Il capolavoro "maledetto" - A Londra nei primi anni '70 incontra David Bowie e nasce la loro collaborazione. Con Bowie inizia anche la trasformazione con il look glam del 1972, da cui nasce Transformer che lo lancia facendolo diventare un idolo. Del 1973 è il suo capolavoro maledetto, Berlin che parla di una coppia di tossicodipendenti. Nella sua lunga carriera, fatta di colpi di scena, nel 2000 esce con Ecstasy che ricorda il Lou Reed degli anni Settanta. Tra gli ultimi lavori The Raven, del 2003, tratto dalle poesie di Edgar Alla Poe. Nell'aprile 2008 si è sposato con una cerimonia privata in Colorado con la compagna Laurie Anderson.
A luglio il ricovero in ospedale - Il primo luglio 2013, stando a quanto riferito dal New York Post, Lou Reed e' stato ricoverato d'urgenza in un ospedale di Long Island, a New York, il Southampton Hospital, per una acuta forma di disidratazione. Nel maggio precedente, Reed si era sottoposto ad un trapianto di fegato.




venerdì 25 ottobre 2013

Altheo " progetti musicali": "L'anima vola" di Elisa entra direttamente al primo posto dei dischi più venduti.





"L'anima vola", il nuovo album di inediti di Elisa a 4 anni da "Heart", entra direttamente al 1/o posto della classifica dei dischi più venduti (dati GFK Retail and Technology Italia). E' il primo disco dell'artista composto da brani interamente scritti in italiano, di cui è autrice di musica e testi, ad eccezione di "A modo tuo", scritto da Ligabue. L'album contiene inoltre il brano "E scopro cos'è la felicità", con la firma e un incontro vocale con Tiziano Ferro.




"In questo album c’è molto del mio stato d’animo, non penso sia un album solo 'materno' penso sia anche molto combattivo e che porti con sé un forte senso di libertà e anche a volte di rischio". Così Elisa parla di 'L’anima vola' (#lanimavola), il suo nuovo disco di inediti che esce martedì (pubblicato da Sugar e disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e su tutte le piattaforme streaming).
Si tratta del primo album composto da brani interamente scritti in italiano, con cui Elisa torna a dar voce, con una nuova veste, al suo poliedrico universo artistico.
"Mi è venuta fuori anche una specie di rabbia, la rabbia dell’essere oggi 'in bilico', rispetto alla crisi che c’è adesso e a quello che devono affrontare i giovani d’oggi", aggiunge Elisa a proposito del disco che arriva a 4 anni dall’ultimo disco di inediti “Heart” (2009), di cui ancora una volta è autrice di musica e testi, ad eccezione di 'A modo tuo', brano scritto interamente da Ligabue, come fu per il grande successo de 'Gli ostacoli del cuore' (2006).
"Luciano - racconta Elisa - l'ha dedicato a sua figlia Linda e l'ha voluto sentir cantare da una mamma. Descrive bene il difficile ruolo del genitore che cresce i propri figli: vorrebbe proteggerli tutta la vita e tenerli lontani dal dolore e dai problemi, ma che in fondo sa bene che dovrà lasciarli andare un giorno".




“L’anima vola”, inoltre, contiene il brano 'E scopro cos’è la felicità', con la firma ed un incontro vocale conTiziano Ferro. "Tiziano - spiega la cantante - vedendo in un documentario su di me in tour delle immagini con mia figlia e con Andrea, è rimasto profondamente colpito dal mio cambiamento di vita e gli è venuto spontaneo dedicare questa canzone al rapporto tra me e mia figlia Emma Cecile. Racconta di come Emma sia arrivata, abbia sconvolto tutti i piani e abbia riempito la mia vita. È una dedica indelebile, e per me un bel sogno che si realizza, quello di una collaborazione con lui".
Un'altra collaborazione importante riguarda il brano 'Ecco che', scritto da Giuliano Sangiorgi su musica di Elisa e scelto da Giovanni Veronesi per il suo nuovo film “L’ultima ruota del carro” (in uscita a novembre e film d'apertura del festival di Roma) per cui Elisa ha composto l’intera colonna sonora.
"Giuliano - racconta Elisa - ha riletto il personaggio principale del film, Ernesto, che con il suo camion di traslochi, rappresenta la classe operaia, che segue il sogno di diventare qualcuno. Alla fine scoprirà, grazie anche alla moglie Angelina, che la vera ricchezza della vita è quella di avere qualcuno da amare, una famiglia, e qualcuno che ti ama, comunque e sempre, senza riserve".
Ad impreziosire il progetto discografico, inoltre, il brano 'Ancora Qui', il cui testo è stato scritto da Elisa sulla musica del Maestro Ennio Morricone (incluso nella colonna sonora dell’ultimo film di Quentin Tarantino “Django Unchained”). "Morricone - dice Elisa - mi è piaciuto tantissimo umanamente, è simpaticissimo, è un genio. È molto interessante, bellissimo, vedere una persona come Morricone avere a 84 anni un’energia senza tempo, e che si muove come se avesse 18 anni".
C'è poi un brano dedicato ai giovani, 'Pagina bianca', a cui Elisa è particolarmente legata, che parla del momento in cui gli adolescenti vogliono irrompere nel mondo adulto e non sanno cosa succederà: "Penso ai giovani d’oggi - dice la cantante - ai sentimenti che provano e che anch’io ho provato alla loro età, quando ero piena di speranze, ma avevo anche paura del futuro, di quello a cui andavo incontro. Io sono una di quelle tipiche persone che ha avuto un passato e un’infanzia un po’ difficili, in provincia. Scrivere un brano che si intitola 'Pagina Bianca' è stato bellissimo ma anche liberatorio, un’esperienza forte".
La produzione artistica de 'L’anima vola' è stata curata da Elisa stessa, con la collaborazione di Davide Rossi, Andrea Rigonat e Christian Rigano. L'album rinnova il sodalizio di Elisa con la Sugar di caterina Caselli: "Con Caterina Caselli ho un rapporto straordinario - confessa Elisa - di grandissimo affetto e rispetto reciproco, oggi più di prima 'da donna a donna', anche se lei con me è molto anche 'mamma'. Ha visto quasi tutte le mie fasi artistiche e, a parte la grande esperienza e tutti i consigli anche preziosi che sa dare, Caterina è 'arte'"
Infine, il 7 marzo prossimo partirà 'L'anima vola Tour' e toccherà le principali città italiane (prodotto e organizzato da F&P Group). L’artista tornerà ad esibirsi dal vivo nei palasport di tutta Italia, tra cui l'8 marzo a Padova (Pala Fabris), il 10 a Torino (Pala Olimpico), l'11 a Genova (105 Stadium), il 13 a Firenze (Nelson Mandela Forum) e il 15 marzo a Roma (Palalottomatica).




mercoledì 23 ottobre 2013

Altheo "Le grandi interviste della storia": Federico Fellini intervistato da Oriana Fallaci.

Da Gli antipatici, 1963

Milano, febbraio 1963

Conosco Fellini da molti anni, ad esser precisa da quando lo incontrai a New York per la prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po' amici infatti andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack's o le caldarroste in Times Square dove si poteva anche sparare al tirassegno. A volte, poi, capitava nell'appartamento che dividevo in Greenwich Village con una ragazza di nome Priscilla per chiedermi un caffellatte: il caffellatte alleviando, non ho mai capito perché, le nostalgie della patria e la lontananza della moglie Giulietta. Entrava massaggiandosi affranto un ginocchio, "Quando son triste mi fa sempre male il ginocchio: Giulietta! Voglio Giulietta!" e Priscilla correva a vederlo come io sarei corsa per veder Greta Garbo. Inutile dire che, a quel tempo, Fellini non aveva nulla di Greta Garbo, non era il monumento ch'è oggi. Mi chiamava Pallina, si faceva chiamare Pallino, in certi casi Pallone, si abbandonava a stravaganze innocenti come piangere al bar del Plaza Hotel perché il critico del «New York Times» aveva scritto male di lui, o passare da prode. Frequentava infatti la bionda di un gangster e questi gli telefonava ogni giorno all'albergo dicendo "I will kill you", ti ammazzerò. Lui non sapeva l'inglese e rispondeva "Very well, very well": alimentando la fama di prode. La fama durò fino a quando io non gli spiegai che "I will kill you" vuol dire "Ti ammazzo". Mezz'ora dopo la spiegazione, Fellini era sopra un aereo e viaggiava alla volta di Roma.








Faceva anche altre cose come girare la notte in Wall Street, esaminare con l'aria di un ladro le banche, indurre al sospetto i poliziotti più sospettosi del mondo che finalmente gli chiesero i documenti, lo arrestarono perché non li aveva, e lo chiusero fino alle sei del mattino in una cella dove rimase a gridare l'unica frase che conoscesse in inglese: "I am Federico Fellini, famous Italian director". Alle sei del mattino un poliziotto italoamericano che aveva visto non so quante volte La strada lo udì: "Se sei davvero Fellini, esci fuori e fischia il motivo de La strada". Fellini uscì fuori e con un filo di voce, lui che non distingue una marcia da un minuetto, fischiò tutta la colonna sonora del film. Un trionfo. Con affettuosi pugni allo stomaco che lo indussero a bere brodini per almeno due settimane, i poliziotti gli chiesero scusa, lo riaccompagnarono in albergo scortandolo con motociclette ed auto blindate, lo salutarono con uno strombettare di clacson che si udì fino ad Harlem. A quel tempo Fellini era proprio simpatico.
Quando lo avvicinai per questa intervista lo era un po' meno sebbene mi salutasse, com'è sua abitudine, sollevandomi in un ardentissimo abbraccio, palpandomi dal collo ai ginocchi, giurando che se non fosse stato sposato a Giulietta avrebbe sposato subito me. "A proposito, perché non ci amammo a New York? Ah, quanto fosti cattiva a negarti!" E fingeva di scordare, s'intende, che nemmeno una volta durante le nostre scorribande a New York m'era giunto da lui un romantico cenno, una adulterina proposta che ci distraesse dai reciproci flirt. Aveva girato La dolce vita, un film per cui lo paragonavano a Shakespeare, stava per presentare Otto e mezzo, un film di cui si parlava senza averlo visto come della Divina Commedia, e pur non confessandolo era conscio della gloria che lo illuminava: il suo volto aveva un piglio quasi mussolinesco, i suoi occhi eran gravi, si capiva che non avrei più potuto chiamarlo Pallino o Pallone. Del resto, esauriti gli abbracci, me lo fece capir quasi subito. M'aveva ricevuto, disse, solo perché io ero io; aveva pochissimo tempo e l'unico modo di far l'intervista era farla mangiando. M'invitava per questo nel ristorante dove in quel momento entravamo.
Tentai di distoglierlo da un così orrendo progetto. Il magnetofono funzionava elettricamente, la presa di corrente non c'era, se c'era non era vicino alla tavola: non servì a niente. O al ristorante mentre mangiavamo o in nessun altro luogo e mai più. Cercai dunque una tavola accanto a una presa di corrente, sistemai il magnetofono fra i piatti e i bicchieri, il vassoio degli antipasti, cominciai l'intervista che subito interrotta da innumerevoli telefonate proseguì con la lievità di uno zoppo che corre; tra un rumore di forchette, bottiglie, masticazioni volgari. Riascoltandola risultavano frasi come la seguente "Con questo film ho inteso narrare... tu vuoi il prosciutto o il salame? Io piglio il salame. Quelli che parlano di dialettica metafisica... no, le pastasciutte non le voglio, fanno ingrassare. Una bistecca senza sale, ecco quello che prendo... è così stupido chiudere gli occhi al mistero... crack! din din..., il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... le patatine! Perché non mangi le patatine?" Nessun dubbio che bisognava ripeterla. E sospirando, gemendo, Fellini rispose d'accordo: poiché io ero io sarebbe venuto l'indomani alle dieci al mio albergo. "Ma in albergo non stiamo tranquilli, Federico." "Lo saremo. Salirò in camera tua."




La mia camera all'Excelsior non era grandissima e un letto a due piazze la riempiva fino a sfiorar le pareti. Conoscendo la seduzione che i letti esercitano su Federico Fellini, per addormentarvicisi è chiaro, chiesi al manager un appartamento con salotto: "Aspetto Fellini". "Fellini, signorina Fallaci? Oh! Ma certo! Ma sì." E mi dettero l'appartamento dove avevano abitato lo scià di Persia e Soraya: con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a portarci il caffè: "Al signor Fellini piace forte e caldo, mi raccomando". Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l'una, le due, ma di Fellini neanche la voce. Il telefono suonò che eran le tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione un tè coi biscotti. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai, perché non stai mai in albergo. Be', ti perdono, e alle cinque sono da te: non un minuto più tardi."
Deposi convinta il ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere aria. "E Fellini?" chiese con un indefinibile sorriso il portiere. "Sarà qui alle cinque" risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne. Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato, sull'impazienza sempre più irritante del mio direttore che da Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è venuto?, suonò liberatore il telefono. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina..." Una complicazione imprevista gli aveva impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già molto che non si negasse e rimandasse l'impegno. Comunque mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione privata del film in via Margutta. «Guarda, Federico, che sono in ritardo, un ritardo di almeno due giorni, il direttore è arrabbiato, le pagine aperte, guarda Federico..." "Ah! Come osi dubitare di me? Come puoi pensar che non vengo?!? È offensivo, malvagio..."
Eccomi dunque, alle undici di sera, che col mio magnetofono aspetto su un portone di via Margutta Federico Fellini, famous Italian director. So che alle undici non verrà: ma lo aspetto. So che non verrà neppure a mezzanotte: ma lo aspetto. So che non verrà nemmeno all'una: ma lo aspetto. Il film, in sala di proiezione, è incominciato da un'ora, da un'ora e mezzo, da due, da due e mezzo, è finito, la gente esce, si ferma al rinfresco, è finito anche il rinfresco, la gente va via, qualcuno chiude il portone, io mi sposto sul marciapiede, continuo ad aspettare, con gli occhi che mi si chiudono, le gambe che mi si piegano, i teddy boy che mi molestano, continuo ad aspettare: finché passa un tassì e ci salgo. È ormai l'una e mezzo del mattino, rientrando dico al portiere di prenotarmi il primo aereo per Milano. In camera, cado sfinita sul letto. Mi addormento di colpo. Mi risveglio col suono del telefono e una melliflua voce che canta: "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, ma perché non sei venuta?!" "Perché parto" rispondo. "Dovevo far le valige: il mio aereo parte domattina alle otto." "Ma è il mio aereo! Anch'io parto alle otto! Non è straordinario? Comodissimo? Parleremo in aereo." Inutile dire che perse l'aereo. Oh, il biglietto l'aveva, e anche la prenotazione. Quel volo era il suo, a Milano lo aspettavano cronisti e fotografi, perché non lo perdesse il suo produttore gli aveva mandato la Cadillac con l'autista. Ma perse l'aereo lo stesso. E quando esso giunse a Linate, i fotografi corsero alla scaletta, sulla scaletta c'ero io che scendevo e due americani dell'Oklahoma, quattro francesi di Nimes, due industriali lombardi di Concimi Chimici e Affini. Fellini giunse a mezzogiorno col mio benvenuto rilasciato a un amico: che andasse all'inferno, e ci restasse. Ammesso che anche all'inferno non fosse sgradito.
Italiani e cinesi, norvegesi e cileni, messicani e francesi, indiani e groenlandesi, popoli tutti della terra, ricordate. Non si manda all'inferno Federico Fellini sennò Federico Fellini si arrabbia, si arrabbia come una bestia e vi telefona insultando il babbo, la mamma, la zia, la nonna, i cognati, i nipoti, i cugini, e vi ricorda che lui è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, e in virtù di questo può mancare a tutti gli appuntamenti che vuole, perdere tutti gli aerei che vuole, anzi gli aerei farebbero bene ad aspettarlo perché Federico Fellini si aspetta, ciascuno di noi è nato per aspettare Federico Fellini eccetera eccetera, amen. Ero al giornale quando telefonò e gridava tanto che tutti lo udirono mentre mi ricordava che Federico Fellini è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, tirando fuori una voce che avrebbe fatto morir di spavento il gangster che aveva fatto morir lui di spavento, insultandomi a morte mentre immaginavo il suo piglio mussolinesco, la sua saliva che copriva come rugiada il telefono, il suo faccione sudato d'ira ed orrore per la blasfemia che avevo osato commettere. Tentai di girare con garbo gli insulti, di spiegargli quel che pensavo in quel momento di lui. Non mi udì, non mi udiva. E mentre tutti ridevano commentandone gli urli, dolcemente deposi il ricevitore.
Cominciò allora una crisi: giacché non è cattivo, lo giuro. Gli è andata male ad andar così bene, ecco tutto: nemmeno sant'Antonio resisterebbe alla sciagura di tanta fortuna, e ciò sveglia la violenza emiliana che cova sotto quell'aria di pacifico gatto. Però dopo gli dispiace moltissimo, fino alle lacrime, è capace di chiamar cento persone per dirvi che il suo cuore è straziato, che vi vuol bene come a Giulietta, che vi ha sempre voluto un gran bene, che ve ne vorrà finché resta al mondo eccetera eccetera, amen. Finché, come un ipnotizzato o un sonnambulo, vi trovate a salire sulla Cadillac che vi ha inviato per andare da lui, a percorrer la strada pensando che la colpa è vostra e non sua, a entrare in ascensore dicendovi come farà a perdonarmi, infine ad aprire la porta della sua stanza d'albergo col volto di Giuda che ha venduto Gesù. Qui trovarlo disteso come Ibn Saud sopra un letto, beato, ronfante, che dice con la sua vocetta melliflua "Tesorino, amorino, Orianina, bambina...", poi essere
stretti in un abbraccio sinistro e ascoltarlo durante una ancor più sinistra serata. L'intervista che segue Fellini volle rileggerla e la rilesse tre volte: ogni volta apportando alle sue risposte correzioni diverse, opinioni nuove, pentimenti improvvisi. È l'intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso. Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu. Lui può anche negarlo. Ma, come dice Jeanne Moreau un po' più in là, egli è un tale bugiardo che la menzogna diventa alla sua buona fede verità sacrosanta.




ORIANA FALLACI. Allora facciamoci coraggio, signor Fellini, e parliamo di Federico Fellini: tanto per cambiare. Le costa fatica, lo so: lei è così schivo, così segreto, così modesto. Ma parlarne è nostro dovere: anche di fronte al paese. Ancora un poco e la storia della sua vita, il significato della sua arte diventeranno materia di insegnamento in tutte le scuole della repubblica: come la matematica, la geografia, la religione. I libri di testo, non esistono già? Federico Fellini, Storia di Federico Fellini, Il mistero di Fellini... Nemmeno su Giuseppe Verdi s'è scritto tanto. Eh, sì: a pensarci bene lei è il Giuseppe Verdi dell'Italia d'oggi. Vi assomigliate perfino: nel cappello. No, la prego: perché nasconde il cappello? Giuseppe Verdi lo portava proprio così: nero, a tese larghe...
FEDERICO FELLINI. Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata.

Perché? Anche Verdi era bravo, sa? Per la prima delle sue opere accadeva esattamente quello che accade per le prime dei suoi film. Io credo che solo per 
La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suoOtto e mezzo: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l'abito nuovo, i critici che intrecciano corone di alloro...
Già. Come se Lo Sceicco Bianco non fosse stato un insuccesso clamoroso, e Il bidone non fosse stato accolto con freddezza glaciale, e La strada non avesse ricevuto sghignazzate e insolenze. E La dolce vita? Cosa credi, ragazzi', che abbia avuto solo lusinghe ed elogi?

Oddio! A Milano volò uno sputacchio. A Roma venne la Celere. Ma anche a Verdi gettavano ogni tanto verdura e uova fresche. Signor Fellini! Non sarà mica preoccupato? Mi scusi, sa: ma a vederlo così placidamente disteso sul letto, con la sua aria da gatto soriano, mi sembrava tanto tranquillo...

Son tranquillissimo. Dopotutto ho fatto quel che avevo in testa di fare: riesco a non preoccuparmi troppo che il film possa piacere o no. L'attesa non mi lascia indifferente, è ovvio. Ma non mi emoziona nel senso che puoi credere tu: l'ansia e la trepidazione che provo sono le stesse di quando feci il primo film. Voglio dire che i successi precedenti non mi danno l'affanno di pensare: aiuto, ora pretendono da me il triplo salto mortale. Non è presunzione se ti dico che l'unica inquietudine può venirmi dal timore che il film sia equivocato: non certo dall'idea che la gente si aspetti da me più di quanto io possa dare. Perché dovrei preoccuparmi di non deludere quei tipi che mi guardano come una soubrette che ogni volta deve salire un gradino più alto ed esibire altre piume?

Signor Fellini, guardiamoci negli occhi: per uno cui non importa un bel niente lei ha fatto abbastanza rumore. Tutto quel mistero sulla trama perché la gente morisse di curiosità, quel fare a nascondino coi giornalisti, quel tacere perfino agli attori la parte che stavano recitando, insomma quella segretezza che era diventata come gli occhiali di Greta Garbo...

Ah sì? Ognuno paga lo scotto dell'ambiente in cui vive: è il cinematografo che traduce tutto in forme volgari. Tesorino mio: sono abbastanza abile da inventare storie e se avessi voluto ricorrere ad accorgimenti pubblicitari... Se non ne parlavo era perché non sapevo che dirne: nemmeno oggi so cosa dirne. Non è un film di cui si possa raccontare la trama. Quando mi chiedono la trama io mi stringo nelle spalle e rispondo ecco, fai conto che una sera incontri un amico in vena di confidenze e questo amico ti narra sgangheratamente, disordinatamente, quello che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d'infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, e tu lo stai a sentire, e alla fine hai ascoltato una creatura umana, e forse viene voglia anche a te di cominciare a raccontare qualcosa... Capito? È una chiacchierata confusa, caotica, una confessione fatta con abbandono, a volte perfino insopportabile...




Sì, in fondo c'è qualcosa di proustiano. Proust tradotto in cinema puro.

Proust? Mah! Io sono molto ignorante... Che vergogna eh? Una sana, vasta, solida, coriacea ignoranza. Non so nulla di nulla. E il discorso non vale solo pei libri. Vale anche pei film.

Lo so, lo so. Lei non va a vedere che i film di Federico Fellini. Quelli degli altri mai, vero?

È così vero che ho il coraggio di dirlo. Non riesco a organizzarmi per il rituale che esige lo spettacolo uscire di casa, salire in macchina, sedersi fra tante persone, star lì a farsi solleticare da emozioni collettive. Se esco di casa per andare al cinema o a teatro, stai sicura che durante il tragitto vedo qualcosa che mi interessa di più. Se poi vedo il film di un altro e mi accorgo che quest'altro ha realizzato una cosa che volevo realizzare io... ci resto male. Certo ho visto i film di Charlot: che artista favoloso. Ma per i quarantenni come me Charlot appartiene alla mitologia della nostra vita: il babbo, la mamma, la maestra, il prete, Charlot. Charlot... l'ho incontrato una volta a Parigi. Aveva visto La strada: mi fece, credo, complimenti a mezza voce. Mi parve piccolissimo, con due manine piccine piccine. Parlava un francese che non capivo, lui non capiva il mio inglese: mi sentivo a disagio, in soggezione...

Lasciamo stare Charlot: siamo qui per Fellini. Il protagonista di 
Otto e mezzo...
L'hai visto? T'è piaciuto?

Certo che m'è piaciuto. Che film triste, però. Tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell'aria di disfacimento e di morte... Sono morti anche i vivi, in quel film.
Ma allora hai capito poco, non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d'animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile...

Se le fa piacere: diciamo pure che ho capito poco.

Tesorino, hai fame? Hai sete? Vuoi sdraiarti un po'?

Non ho fame, non ho sete, e non voglio sdraiarmi per niente. Mi lasci continuare, la prego. Dunque dicevo: il protagonista del film ha quarantatré anni, è un regista, ed è Federico Fellini. Anche se lei lo ha chiamato Guido Anselmi...

Davvero non hai bisogno di nulla? Un caffè...




Non ho bisogno di nulla. Per favore, signor Fellini: lasci stare il mio magnetofono. Se continua a toccarlo, lo rompe. Perché vuole romperlo? Tanto lo sappiamo tutti, ormai, che il suo film è autobiografico: sfacciatamente, indiscutibilmente autobiografico. Perfino il cappello di Guido Anselmi è identico al suo. Perfino il modo di buttarsi il cappotto sulle spalle, di camminare, di sorridere. Lasci stare il mio magnetofono. Perfino...

Ma quello è un regista fallito, che sta fallendo. Oh, bimba!? Ti sembro un regista fallito, io? Guido Anselmi ha quarantatré anni come me, va bene, ma potrebbe averne quarantuno o quarantasette o trentacinque come quell'altro grande regista. "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita." È un uomo perduto in una boscaglia intricata e buia...

... perfino nella stessa capacità di dire bugie. "Menti come respiri", gli dice sua moglie. Oddio: non che a somigliargli lei faccia una gran bella figura. Il ritrattino è spietato: "Pulcinella ipocrita e vigliacco." "Debole, abulico e mistificatore." "Presuntuoso, incerto e imbroglione." "Un tipo che non vuol bene a nessuno." E, per finire, quella ammissione terribile: "Non ho proprio nulla da dire ma lo dico lo stesso".

E va bene. E con questo? Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.

Magari lo è. Una splendida, impudica chiacchierata narcisistica.

Mi dispiace, ma non credo che sia così. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia.

Senta, signor Fellini: l'avvocato padre di famiglia potrà anche riconoscersi in Guido, però resta il fatto che Guido è Fellini. Ma via: sembra un atto testamentario, quel film, un tirare le somme. A parte il fatto che tirare le somme della propria vita a quarantatré anni mi sembra un po' esagerato.

Perché? Meglio tirarle presto che tirarle tardi: quando non c'è più tempo di cambiar nulla. Quarantatré anni non sono un'età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei... vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso...




Oddio, signor Fellini: non mi venga a dire che a lei importa della gente che va a vedere il suo film. Se c'è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei. Lasciamo perdere, per carità, e prendiamo atto dell'importante ammissione: le somme che tira in 
Otto e mezzo sono quelle della sua vita e non di un personaggio fantastico.
Uffa, che noiosina. Ma cosa vuoi che ti dica? Tante cose... si capisce... son vere. Quello che è successo nel film è successo un po' a me... a un certo punto non sapevo più cosa fare, non mi ricordavo più niente. Lavoravo con Flajano, Pinelli, Rondi, senza convinzione. Avevo l'episodio della Saraghina, quello del cardinale, ma erano cose staccate, che nuotavano nel, vuoto: e non mi ricordavo più niente, davvero. Quelli della produzione stavano lì, mi guardavano con occhi imploranti, sospettosi, e io avevo una gran voglia di dire al produttore lasciamo perdere, non facciamolo più questo film. Poi m'è sembrato che questo smarrimento fosse un invito, l'aiuto di un collaboratore invisibile che mi diceva racconta la verità, racconta questo. E così m'è venuta l'idea di fare un film su un regista che vuol fare un film e non se lo ricorda più. Sì, Guido Anselmi non fa che vivere ciò che ho vissuto in parte anch'io in questo film. E la conclusione, se conclusione si può chiamare, è questa: non bisogna accanirsi nel capire ma tentar di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi: io sono questo e sono contento di essere questo. Voglio smetterla di costruire miti sopra di me, voglio vedermi come sono: bugiardo, incoerente, ipocrita, vile... Voglio piantarla di problematizzare la vita, voglio mettermi in condizioni di amarla, di saper amare tutto. Parlo sempre di Guido, s'intende... E insomma lo dice anche sant'Agostino: "Ama e fai quello che vuoi". Be', non dice proprio così ma quasi...

Per uno che non ha letto nulla, mica male la citazione di sant'Agostino.

È che ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina che dice una cosa così. Poi, magari quella cosa così non la capisco neanche, subito...

Bugiardo. Mi dica piuttosto come mai non ha più scelto Laurence Olivier per il ruolo di Federico, pardon, di Guido. Sarebbe stato perfetto.

Laurence Olivier... Un inglese, un baronetto, un grandissimo attore. Come si fa? Ti intimidisce. Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un'ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C'è e non c'è. Perfetto.

Già, lei si affeziona agli attori che adopra. E Giulietta? L'ha persa per la strada, Giulietta?

Ho un paio di film in testa: che derivano da Otto e mezzo come la pera dal pero. Nel prossimo c'è anche Giulietta. Giulietta per me è un personaggio evocatore di un mondo che non si è scolorito o intiepidito: riprenderò quel personaggio con nuova voglia, nuova fantasia. Girerò questi due film in Italia... In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori? Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica.

Sì, in fondo lei è un inguaribile cattolico: o, almeno, assai più legato al cattolicesimo di quanto si creda. Lo si capisce bene anche da questo film su cui le autorità ecclesiastiche non han trovato a ridire.

Ma tu conosci qualche italiano che sia completamente laico?! Io no. Ma come è possibile? Ce l'abbiamo nel sangue, il cattolicesimo, da secoli. Quanti? Il tentativo di liberarsene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l'ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l'oggetto della rivolta, perché dovremmo ribellarci? Guido è una vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l'uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l'episodio del bambino e di Saraghina?

È indiscutibilmente il più bello del film. La punizione del bambino, soprattutto. Quei preti gelidi, senza pietà. M'è sembrato di rivedere certi disegni del Goya: l'Inquisizione, la strega martoriata... Tanto più patetico in quanto la strega, qui, era un bambino. Era lei quel bambino?

In un collegio a quel modo non ci sono mai stato, un'estate però sono stato in un convento di salesiani ed era press'a poco così. Sai, questa educazione basata sulla mortificazione del corpo, le bacchettate sui geloni, che male, l'esser costretto a inginocchiarsi sul granoturco, che male, e quel sentirsi continuamente giudicati da Dio... Tu credi d'essere solo, ti ripetono, ma Dio ti vede, ti vede sempre. Sai, queste in un bambino sono vere ferite e se ne guarisce a fatica. No, non riesco a scindere dalla mia vita il ricordo delle chiese, delle monache, dei preti, le voci dal pulpito, le voci dal confessionale, i funerali... Ma quale italiano può fare a meno di questo paesaggio, di questa coreografia?

Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?

Certamente. Ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c'è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiedi aiuto a ciò che v'è di più prezioso in te, di più vergine... Oddio, piantiamola: dette così certe cose diventano ridicole. Io volevo dire soltanto che non capisco come una non possa pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto... il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... Oria'! Ma che mi fai dire?!

Io nulla: è lei che parla. E sa chi mi ricorda quando parla così? Ingmar Bergman. Straordinario quanto vi sia in comune tra lei e Bergman: lei così romagnolo, Bergman così nordico, lei così sanguigno, Bergman
 così ascetico. A parte i vostri film, che mi sembra abbiano molti punti in contatto, anche lui non riesce a far niente fuori del proprio paese, anche lui è un peccatore ossessionato dal peccato...
Bergman, sì: di lui ho visto anche un film, Il volto. Mi è piaciuto moltissimo. Bergman è il più grande autore cinematografico che esista oggi.

Dopo Fellini? Prima di Fellini? O contemporaneamente a Fellini?

Mascalzona, che ne so? Come faccio a dirlo? Per me è un fratello. Egli è ciò che deve essere un uomo che parla agli altri: la tonaca del profeta, e in testa il cilindro coi lustrini del pagliaccio. Ecco: Bergman ha tutti e due: la tonaca e i lustrini.

E Federico Fellini?

Mah! Forse io ho meno tonaca e più lustrini.



Interessante: quando intervistai Bergman, anche lui mi parlò a lungo di lei. Voleva sapere un mucchio di cose: come viveva e come parlava...

E tu, le solite balle: chissà che gli hai detto. Le mie bugie mischiate alle tue... Oddio! Mi piacerebbe conoscerlo, Bergman. Fino ad oggi ci siamo scritti soltanto. C'è un produttore simpatico e irresponsabile che voleva fare un film a episodi con me, Bergman e Kurosawa: quello straordinario regista di I sette samurai. Mi pregò di scrivere a Bergman al quale del resto avevo sempre mandato saluti attraverso giornalisti svedesi. Così gli scrissi caro Bergman, ti ammiro tanto e ti voglio bene come ad un fratellino, c'è questo produttore che vuol fare questa cosa, secondo me è un progetto un po' avventato ma proprio perché pazzo vale la pena di tentare. Bergman mi rispose una bellissima lettera dove diceva che avrebbe fatto questa cosa con gioia e infatti non s'è fatto ancora nulla.

Un'altra caratteristica di Bergman è che se ne frega completamente di ciò che scrivono i critici su di lui: ma in questo non vi assomigliate. So che lei ci bada parecchio a certe critiche con le parole difficili che finiscono in ismi, asmi, e parlano di dialettica, etica, estetica... Qualcosa del genere: legga un po’  questo articolo.

Ma che dice questo qui? Ma che vuole? Non ha mai capito i miei film nonostante gli piacciano: ne sono sicuro. E a dirtela chiara mi dispiace che gli piacciano. Io ho un vocabolario scarso, dinanzi a queste parole resto sconfortato. Del resto il cinema, tranne cinque o sei confortanti eccezioni, ha la critica che si merita: è un'arte giovane, sgangherata. Tutti fanno la critica in senso libresco, mai umanisticamente, ma che me ne importa? Io non sono uno di quelli che corrono all'edicola per sapere cosa ha scritto il critico Tale; a proposito, cosa ha scritto Marotta di Otto e mezzo? Io leggo volentieri quelli che parlano bene di me. So bene che anche la critica negativa può essere costruttiva, ma la sola che capisco è quella materna, fatta di bacetti, di carezze, di paroline lusinghiere...

Infatti, nel film, quel rompiscatole che non le dà i bacetti finisce impiccato. Quante volte ha sognato di impiccare chi non le dice che è bravo, signor Fellini?

Tante volte. La critica espressa così è per me pericolosissima perché uccide la spontaneità.

Io mi chiedo cosa avrebbe potuto fare lei se il cinema non fosse esistito, insomma se fosse nato quando il cinema non esisteva. Il confine tra fantasia e realtà è così labile in lei...

Cosa avrei potuto fare? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo. Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l'unico mestiere per me, l'unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata...

Certo non lo vedo un Fellini nascosto, pensatore solitario. Noi dei giornali abbiamo inventato la divinizzazione dei registi: ma a pochi tale divinizzazione si addice quanto a lei. Lei ha sempre bisogno di un palcoscenico che la illumini, di un'orchestra che le suoni una marcetta.

Può anche darsi che esista questa componente di vanità: d'altra parte lo spettacolo si fa coi riflettori accesi. Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi.

E quell'altra ricchezza? Quella terrestre, volgare, fatta di un delizioso conto in banca? Lei è ricco, ormai.

No, e poi no, e poi un'altra volta no. Tesorino mio, ma quante volte devo ripeterti che il produttore dellaDolce vita non sono io? Sai, a me importa poco dei soldi. Mi servono, ecco tutto. Che me ne faccio di una villa con la piscina? L'importante è non aver debiti.

Senta, signor Fellini: il cardinale del film dice una agghiacciante realtà. "Nessuno viene al mondo per essere felice." Lei è felice? È almeno soddisfatto?

Felice? Mah!... Sì... Sto volentieri al mondo, sto volentieri con gli altri. Mi interessa quel che mi succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro. Soddisfatto... Mah! Spero di non essere mai completamente soddisfatto: perché allora sarebbe la fine. M'è andata benissimo, certo. Ma è andata come doveva andare.

Vuol dire che le sembra giusto avere avuto il successo che ha avuto? Vuol dire che non ha alcun dubbio sulla legittimità di questo successo? Vuol dire che non giudica con nessuna modestia il fatto d'essere esaltato come "il fenomeno cinematografico più importante del nostro tempo"? Che insomma trova sacrosanto il trionfo della
Dolce vita, questa venerazione da Greta Garbo che la circonda, il particolare che basti un annuncio sul giornale perché orde di pazzi le vengano a offrire pei suoi film nonne moribonde, zie paralitiche, mogli virtuose?
Come faccio io a dire fino a che punto questo è giusto o ingiusto? I dubbi ce li ho durante il lavoro e sono i dubbi di uno che crea, che inventa. Dopo, quando il film è finito, non riesco ad oggettivarmi, a tenere un atteggiamento distaccato. Sarebbe come se tu mi invitassi a parlare della mia vita, di un amore, di una avventura, di un viaggio. Come la giudico? Mah! Non giudico, dico che mi era necessario. Tutto ciò che ci è capitato di bene e di male era necessario. La dolce vita è un film che ho fatto tanti anni fa: mi è stato più faticoso liberarmene perché era una specie di mostro, che continuava a crescere. Se il suo successo è giustificato non lo so: evidentemente il film aveva una carica che giustificava tale emozione. Quanto alle nonne moribonde, alle zie paralitiche che mi offrono pei film... Io sono un romantico: mi piace vedere la vita sempre in chiave di fantasia. Potrei dunque dire che il cinema è una sirena dalla seduzione infinita e per questo gli regalano le nonne moribonde. Invece mi piace pensare che la gente me le porta per aiutarmi a fare un film. Toh! Piglia.

Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore. Questa non è risposta. Recentemente, se ben ricordo, noi due abbiamo avuto un violento scontro telefonico: in seguito al quale le risponderò sempre col lei. E in quell'occasione sì che mi ha dato una risposta. Io le ho ricordato che i giornalisti l'hanno sempre trattata con stima ed affetto e lei ha replicato che i giornalisti l'avevano sempre trattata come si merita perché lei è Federico Fellini ed un grande artista.

Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata.

Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.