lunedì 10 ottobre 2016

Altheo "Tendenze": Madrid, le strisce pedonali come gallerie d’arte a cielo aperto.


Dimenticate le banali strisce pedonali a Madrid: Christo Guelov ha trasformato dei comuni passaggi stradali in opere d'arte colorate e divertenti.



Siamo abituati a camminare per strada e fare a stento attenzione ai segnali urbani. Strisce bianche su asfalto nero è l'inconfondibile simbolo che indica un attraversamento pedonale e in città se ne vedono moltissimi, così tanti che difficilmente si possono contare, ma tutti uguali. Nella routine quotidiana, tra traffico, smog, alti palazzi e fiumi di gente, quasi più non ci accorgiamo dell'ambiente urbano che ci circonda, sempre uguale a se stesso e dato ormai per scontato. Se andate di recente a Madrid, però, resterete meravigliati dalle strisce pedonali in città: qui l'artista Christo Guelov ha trasformato dei banali passaggi stradali in gallerie d'arte a cielo aperto.





Quando la street art diventa motivo di riqualificazione urbana nascono progetti come Funnycross di Christo Guelov. L'artista spagnolo ha trasformato tredici passaggi pedonali in opere d'arte vivacissime. Usando i colori e i disegni geometriche è riuscito ad intervenire nel paesaggio urbano in modo originale creando strisce pedonali davvero uniche. L'intervento di Christo Guelov è stato concentrato davanti a tre scuole di Madrid: San Ignacio ("Diagonali I" e, "Diagonali II"), Lourdes ( "onde") e Los Angeles ( "interferenze") e di fronte alla Casa de Cultura ("tappeto"). Il punto di partenza del progetto è stato vedere nei passaggi pedonali "Un ponte tra due sponde". la città si riempie di colore con i Funnycross di Guelov. Lo scopo dell'artista in tutto il suo lavoro è quello di "indagare su ‘qualcosa' a quanto pare inesistente o invisibile agli altri e di dotarla di presenza reale". Con il progetto Funny Cross Christo Guelov vuole sensibilizzare l'attenzione sul rispetto per la sicurezza dei pedoni.




Non solo Madrid ma anche altre città del mondo stanno trasformando le proprie strisce pedonali: in India le strisce pedonali diventano 3D per limitare la velocità delle auto. La nuova iniziativa è stata promossa dal ministero dei trasporti per evitare che gli automobilisti corrano troppo. La tridimensionalità conferisce infatti al passaggio pedonale un particolare effetto di galleggiamento dei pedoni che attira l'attenzione dell'automobilista facendolo rallentare. Questi progetti dimostrano quanto la street art possa migliore le città del mondo.



sabato 8 ottobre 2016

Altheo "Accordi Musicali": Revolutionary Radio, tornano i Green Day


Nuovo disco dopo 4 anni 




Dopo quattro anni di silenzio discografico, il crack di Billie Joe Armstrong, ora sobrio dopo un lungo rehab, l'ingresso nella Rock'n'Roll Hall of Fame, i Green Day tornano con un album, "Revolutionary Radio" che è probabilmente la cosa migliore che fanno dai tempi, il 2004, di "American Idiot". E' forse solo una coincidenza ma anche questo nuovo album esce al tempo delle elezioni negli Usa: così come allora i riferimenti a George W. Bush erano evidenti, questa volta Armstrong non ha esitato a dire, a proposito di "Troubled Times" (tempi difficili), un brano che descrive le difficoltà dell'America d'oggi, che "Trump sta mirando alle paure, alla rabbia e alla disperazione della gente ... sta nutrendo cani affamati". Stavolta i Green Day non si presentano con le ambizioni di un'opera rock da portare a Broadway (vedi "American Idiot") nè con la pretesa di fare accendere il dibattito politico. 




A dispetto del titolo, "Revolutionary Radio" è una raccolta di 12 brani, dove, a livello di testi, non ci sono slogan. Piuttosto prevale il quasi fisiologico desiderio di Billie Joe Armstrong di affermare di essere ancora vivo. Il suo contatto con il mondo avviene attraverso uno sguardo che inevitabilmente si posa su una società in preda agli incubi. Al tempo stesso si sente forte il peso della nostalgia, l'inevitabile constatazione di quanto tempo sia passato da quando lui e il suo amico di sempre - il bassista Mike Dirnt - erano due dropout di Oakland, a oggi. Sono molti anni vissuti pericolosamente che li hanno fatti diventare delle star. Non per niente nel brano iniziale, "Somewhere Now" la domanda è: "come è accaduto che una vita vissuta sul lato selvaggio sia diventata così monotona?". Sono tanti i temi affrontati e nessuno è leggero: "Bang Bang" il primo singolo, un punk vecchia maniera, parla ad esempio, di un cecchino di massa e di come i media raccontino queste vicende, ma c'è spazio per le manifestazioni del movimento Black Lives Matter, gli scontri di Ferguson in Missouri, l'ineguaglianza economica. E in fondo di fatica del vivere. 





Le immagini più ricorrenti sono pistole, bombe, guerre, distruzioni, un mondo sul punto di crollare. Musicalmente parlando, "Revolutionary Radio" è ben piantato nella tradizione rock punk della band: ma ci sono evidenti omaggi agli Who, in particolare in "Somewhere Now" il brano di apertura, e in "Forever Now", la traccia più ambiziosa dell'album, quasi sette minuti di momenti musicali diversi tra loro ma ben cuciti l'uno all'altro, echi di Ramones o del post grunge, ma anche sorprendenti omaggi all' American Classic Rock da FM tipo Cars o Boston (nelle ballad). L'album si chiude con una ballad acustica, "Ordinary World", title song di un film che in America uscirà la prossima settimana, e che ha per protagonista Billie Joe Armstrong, nel ruolo di un punk rocker arrivato ai 40 anni. Quello di questa canzone è certamente molto più sereno dell'autore che ha scritto gli altri 11 pezzi dell'album che a 44 anni c'è arrivato con un carico di angoscia e rabbia che sembra il riflesso dell'America che ha intorno. 


venerdì 7 ottobre 2016

Altheo "Fotografia": Annie Leibovitz.





Nel museo delle opere immortali c’è un famoso ritratto fotografico degli anni ’80, la figura esile e nuda di John abbraccia con trasporto quella vestita e distaccata di Yoko Ono. Ci abbassiamo a leggere l’autore della foto e scorgiamo un nome. Andiamo in un’altra stanza e una donna nuda, gravida, di profilo ci saluta, Demi Moore fu la prima a sdoganare quel genere di foto. Prima di allora le donne incinte nascondevano il loro corpo, intimorite dalla morale comune contraria a mostrarsi in quella fase. Leggiamo l’autore ed è di nuovo il nome di prima: Annie Leibovitz.



E ancora Whoopi Goldberg che ci sorride dalla sua vasca riempita di latte. Ancora lei.
Nel museo delle opere immortali ci sono tante fotografie passate alla storia ma è incredibile quante di esse portino il nome di Annie Leibovitz.
La fotografa è nata nel 1949 negli Stati Uniti, abituata fin da piccola a trasferirsi da un luogo all’altro del Paese per seguire gli spostamenti di suo padre, un ufficiale dell’Aeronautica Militare.
È proprio qui che affina il suo occhio, mentre l’auto macinava chilometri e lei aveva come unico rimedio alla noia quello di guardare il mondo dal finestrino, esso diventava il suo schermo, il display da cui guardare le anteprime, fu così che i primi paesaggi e i primi personaggi comparirono al suo sguardo indagatore per pochi secondi. La piccola Annie Leibovitz non conosce alcuna regola della composizione ma sa che quella veduta era piatta prima che comparisse quell’anziano alla sua sinistra. Non conosce nemmeno le regole dei colori ma guarda ammirata le foglie rosse autunnali stagliarsi contro lo steccato verde di quella casa, creando un accostamente perfetto. La piccola Annie non sa tutto questo, non ancora.


A 18 anni è pronta per il San Francisco Art Institute, il corso di pittura la attrae come qualunque artista che inizia il suo percorso decidendo di imprimere le emozioni in istanti. Ma è breve il lasso di tempo in cui decide di appassionarsi alla fotografia, troppo forte è quel sottile legame creato anni prima con il finestrino dell’auto.
Appena un anno dopo comprerà in Giappone una Minolta SR-T 101, una fotocamera SLR 35mm, che la accompagnerà nella lunga scalata del monte Fuji con i suoi fratelli e sorelle.
In merito a quell’esperienza avrebbe detto che la fotocamera era pesantissima e sembrava sempre più pesante ad ogni passo verso la vetta. Una volta arrivata in cima si rese conto di avere solo un rullino, di cui ne aveva già consumato la gran parte, e scattò le ultime 3 foto all’alba levante. Quell’adolescente Annie Leibovitz non sapeva come giostrare i tempi e la gestione degli scatti, non ancora.
La fotografa comincia a frequentare un corso serale, nel 1970, per affinare la propria tecnica e si fa le ossa scattando le prime foto alle manifestazioni contro la guerra, l’anno successivo.



Proprio una di esse finirà su una copertina di Rolling Stones.
Questa rivista era agli albori, non era ancora l’esponente principale delle riviste musicali. Ma aveva fiuto e l’editore Jann Wenner captò da subito il talento di questa giovane fotografa. Dopo un colloquio e una rapida occhiata al portfolio di Annie, ne rimase talmente colpito da assumerla come fotografa dello staff. Nel giro di due anni, la Leibovitz divenne chief photographer ovvero fotografo capo. Un bel traguardo per una appena 23enne!
Ebbe questo incarico per 10 anni, periodo in cui seguì le più importanti rockstar nei loro tour, scattando foto on stage e dietro le quinte.
Una delle foto più rappresentative di questo periodo fu quella di Mick Jagger in ascensore, durante il tour del 1975, ritraendolo in accappatoio e cuffietta. Una visione semplice e ordinaria per l’uomo più straordinario di tutti i tempi.


Dell’esperienza rock, Annie non riesce a ricordare bene le sue impressioni a causa della dipendenza dalla droga, in pieno spirito sex, drugs & rock n’roll.
Non è un caso se, lavorando con i Rolling Stones, la fotografa sia entrata nella spirale della dipendenza. C’entra il suo approccio alla fotografia, entrare dentro la scena e provare empatia per i personaggi da ritrarre. La vita spericolata della band però era troppo per la giovane Annie, che in seguito dirà di averci messo 8 anni per uscire fuori da quel periodo e di aver imparato un importante lezione: prestare attenzione a dove si mettono i piedi per evitare di perdere se stessi.
Molte furono le copertine firmate dalla fotografa per il Rolling Stones, da Meryl Streep travestita da mimo, a Mick Jagger e Keith Richards fino alla famosissima coppia John e Yokoquest’ultima scattata il mattino prima della morte di Lennon.
Annie Leibovitz scattò la foto simbolo dell’amore con il rappresentante massimo dell’era del peace and love il giorno prima che tutto finisse; solo poche ore prima che l’amore soccombesse alle pallottole di uno squilibrato. Ma nel momento in cui John si denudò e si mise a letto con Yoko, Annie non lo sapeva.




Una curiosità sulla foto vede una Annie con un’idea originale diversa rispetto allo scatto finale, avrebbero infatti dovuto essere entrambi nudi ma Yoko non voleva assolutamente togliersi i pantaloni. La fotografa decise allora di rispettare la sua decisione e far spogliare solo Lennon. Incredibile come uno degli scatti che hanno scritto la storia sia il frutto di una coincidenza!
L’esperienza con il Rolling Stones affinò la sua tecnica, caratterizzandola con pose divertenti e colori vivaci, coerentemente con la rivista e il genere musicale ma la fotografa non era pienamente consapevole di quanto il suo stile sarebbe stato importante per le generazioni future.
Molto spesso racconta di quanto si sentisse inesperta nel dirigere gli artisti e di farli muovere solo per non tenerli fermi sulla scena.
È il 1983 quando decide di lasciare la rivista per entrare a far parte della famiglia Vanity Fair.
Questa nuova sfida permette alla fotografa di cimentarsi con diversi ritratti e, ovviamente, diversi protagonisti. Niente più rockstar controverse o cantanti in voga. Vanity Fair toccava una varietà di argomenti infinita e di conseguenza i ritratti richiesti erano infiniti; davanti all’obiettivo posavano presidenti, attori impegnati, adolescenti rubacuori, giovani promesse letterarie, ecc.
Se il Rolling Stones fu la palestra di Annie Leibovitz, Vanity Fair fu la consacrazione del suo talento. Capace di impostare la scena e le luci a seconda della persona che gli compariva dinanzi, aggiungendo particolari o elementi capaci di racchiudere la personalità del ritratto.
Ma nulla è preparato in anticipo, non c’è premeditazione o finzione nelle sue foto, se glielo chiedete vi risponderà:”simply goes for it“, semplicemente va…
Ma non c’è solo Vanity Fair nella sua vita e durante gli anni ’80 cominciò a lavorare su una serie di campagne pubblicitarie di alto profilo come American Expressche le permise di avere pieno controllo sulla campagna, di lavorare al fianco di personaggi quali Luciano Pavarotti e Tom Selleck e di venire premiata con il Clio Award nel 1987.
Gli anni ’90 si aprirono con diversi progetti interessanti per la Leibovitz, tra questi ricordiamo “Dancing Series“, una serie di ritratti di ballerini (tra cui il grande Baryshnikov). Una curiosità su questo progetto è che la fotografa voleva scattare solo qualche foto ma le ore diventarono giorni e i giorni diventarono tre settimane. Sua madre era infatti una ballerina e immergersi in quell’ambiente fatto di punte e posizioni le provocò un ritorno all’infanzia talmente piacevole da restare accanto ai ballerini più del dovuto. In queste foto si nota una certa maturità e occhio alla composizione, simbolo della crescita personale di Annie.
Appena un anno dopo la National Portrait Gallery le dedica un’intera mostra con oltre 200 ritratti, fu un grandissimo onore dato che era la prima volta per una donna.





Più tardi, sempre quell’anno, venne edito un libro Photographs: Annie Leibovitz, 1970-1990 per accompagnare la mostra. In totale, nella vita della fotografa, ce ne sono stati 5: “Photographs“, “American Olympians“, “Women” e “American Music“.
“American Olympians” raccoglie una serie di fotografie in bianco e nero degli atleti americani durante le Olimpiadi di Atlanta, manifestazione in cui la Leibovitz era fotografa ufficiale.
Ma è Women del 1999 a lasciare il segno, considerato uno dei suoi miglior lavori. Il libro raccoglie vari ritratti femminili, dai giudici della Corte Suprema alle ballerine di Las Vegas, fino alle operaie e le contadine. Annie volle rappresentare la diversità della bellezza femminile e quanto essa cambi a seconda del ruolo sociale della donna. Un lungo viaggio suggeritole da Susan Sontag, scrittrice incontrata nel 1988 e diventata la sua compagna di vita.
Proprio lei scrisse un dolce e romantico saggio d’accompagnamento al libro. Susan rimarrà il suo grande amore fino alla sua scomparsa, nel 2004.
“Women” recentemente è diventato una mostra itinerante facendo il suo debutto a Londra nel gennaio 2016 e dal 9 settembre al 2 ottobre ha toccato anche Milano con il progetto “Women: New Project” con l’obiettivo di rappresentare la mutazione delle donne nel corso di questi decenni. Un lavoro di prospettiva che non è altro che la continuazione del viaggio della piccola Annie…





Il lavoro della fotografa negli anni 2000 si tesse di progetti particolarmente diversi, come a voler raggiungere traguardi nuovi capaci di rinnovare il suo amore per la fotocamera.
Ed è così che diventa la fotografa del cast de “I sopranos” riprendendoli come una sorta di “Ultima Cena” di Leonardo Da Vinci, foto che la premierà con l’Alfred Eisenstaedt.
O ancora il progetto Alice nel paese delle meraviglie ideato e realizzato con i maggiori stilisti dal calibro di John Galliano, Natalia Vodianova e Tom Ford che non solo disegnano i surrealistici costumi di scena ma ne interpretano anche i personaggi. Loro che disegnano sogni e rimangono dietro le quinte, diventano i protagonisti della favola, la favola di Annie.
Ma il rifacimento al mondo delle fiabe non finisce qui e nel 2005 e 2006, la fotografa partecipa ad altri due shooting a tema “Mago di Oz” e “Maria Antonietta”, rispettivamente con Keira Knightley e Kirsten Durst.
Esaminando questo percorso con un occhio critico, Annie Leibovitz riesce a divertirsi e proporre scatti che ai tempi di Rolling Stones non avrebbe mai potuto fare, limitata dalle linee guida e dalla necessità di rappresentare e porre massima attenzione verso il soggetto. Con il progredire della sua carriera ha acquistato la piena autonomia, convincendo e vincendo grazie alle sue idee originali e innovative.
Nell’ultimo decennio ha siglato diversi Calendari Pirelli, di cui l’ultimo nel 2016, e il famoso servizio fotografico alla Casa Reale Britannica.
Ma se le chiedete quale sia la sua foto preferita non sa rispondervi, tituba e pensa un po’, per poi dirvi che una delle sue foto più significative è quella della madre di Marilyn Monroe.
Perché la guarda come sei lei non ci fosse ed effettivamente il ritratto ha qualcosa di ipnotico. La donna non è agghindata, non è truccata, si presenta con una camicia aperta indifferentemente sul petto, con i capelli ricci che le incorniciano il volto e un’espressione intensa che oltrepassa lo schermo e sembra graffiare chi la guarda.
Questa foto è poco conosciuta, ma rappresenta in pieno lo stile di Annie Leibovitz: diretta, priva di fronzoli, profonda e che ti scava l’animo. Lei entra nei suoi soggetti, crea un feeling con loro e ne studia il carattere, riuscendo così a rendere il personaggio protagonista della fotografia e non il contrario.
La piccola Annie è cresciuta e adesso sa tante cose.







giovedì 6 ottobre 2016

Altheo "Cultura": I Musei Vaticani svelano i loro segreti Porte aperte ai laboratori di restauro e un volume in arrivo.




La grande Madonna di Giaquinto Palmezzano tornata a indossare il suo manto blu, ma anche i temibili scudi cerimoniali delle tribù della Papua Nuova Guinea in attesa di tornare a incutere terrore. Un tesoro d'arte proprio sotto le grandi stanze affrescate da Raffaello o a pochi passi dalla Cappella Sistina. Per una volta, i Musei Vaticani aprono le porte del loro "dietro le quinte", svelando storie, aneddoti e immagini inedite del terzo museo più visitato al mondo nel volume "Musei Vaticani Arte - Storia - Curiosità", a cura di Sandro Barbagallo (ed. Musei Vaticani e Focus Storia).
E consentendo, eccezionalmente, alla stampa di varcare quelle porte "segrete", che, quasi museo nel museo, sono i laboratori di restauro dove dal 1923, si lavora per ridare voce e colore non solo alle opere custodite nei 7 chilometri di gallerie dei Musei, ma anche a tutti capolavori dei Palazzi del Papa, delle chiese, delle nunziature apostoliche.







Altheo "Le Storie del Jukebox": Skin in Renaissance per serie I Medici.


Brano scritto da Paolo Buonvino e dalla stessa artista




A cantare la sigla di testa e di coda della nuova serie tv Rai "I Medici", in onda dal 17 ottobre, è Skin. L'artista inglese ha scritto Renaissance, che fa parte anche della colonna sonora della produzione internazionale, insieme a Paolo Buonvino. Il brano nasce da un'idea di Buonvino che fin dall'inizio ha pensato a Skin come partner d'eccezione del progetto. La collaborazione tra i due musicisti ha portato alla creazione di un'opera che, pur attingendo al mondo classico rinascimentale, si contamina di rock ed elettronica, per testimoniare una "rinascita contemporanea".
Skin è anche protagonista del videoclip.
I Medici sono una coproduzione internazionale targata Rai Fiction, Lux Vide, Big Light Productions (UK) e Wild Bunch TV (FRA) sulla famiglia Medici di Firenze. La colonna sonora è coprodotta con CAM del Gruppo Sugar.






Altheo "Passione on the Road": Africa: Griot.


"Un mondo senza griot mancherebbe di sapore come il riso senza salza"
(proverbio peul, Mali)




Quelle dei Griot è l'arte di parlare.
La loro presenza alla corte del Mali nel XIV secolo è attestata dal geografo arabo Ibn Battuta.
Questi bardi e cantori africani sono presenti in varie popolazioni dell'Africa occidentale e soprattutto nelle aree mande.
Si tratta di un'attività in cui possono accedere solo i membri di certe famiglie endogamiche.
Come accade per altre professioni, come quella dei fabbri, anche i griot sono sia temuti che disprezzati: il potere della loro parola può fare le fortune di una persona quanto la sua disgrazia, attirando su di lui spiriti malevoli.
Questa marginalità sociale consente ai griot di avere una certa libertà di espressione (similmente ai buffoni nelle corti europee), talora con comportamenti socialmente trasgressivi, come lo spogliarsi  pubblicamente.
I griot possono esercitare autonomamente in villaggi e città oppure offrire i loro servigi ai nobili, di cui cantano le lodi e tramandano la genealogia.



Hanno quindi un importante funzione sociale, educativa e politica nella trasmissione della memoria storica e nel mettere in relazione le diverse parti della comunità.
I profondi cambiamenti sociali dell'epoca coloniale, con il decadere dei mecenati tradizionali, hanno costretto o consentito ai griot di acquistare fonti di reddito, facendone in qualche caso dei musicisti sulla scena internazionale contemporanea.



Presso i Bamana del Mali la forza della parola dei griot poggia sulla sua valenza di tonico: essa rafforza moralmente e fisicamente la persona a cui è indirizzata intensificando il suo nyama, l'energia che è presente, in diverso grado, in tutti gli esseri, organici e inorganici.
Poeti e musicisti, raccontano storie, forniscono consigli, traducono e interpretano i discorsi degli altri, riportano e diffondono le notizie, svolgono funzioni diplomatiche e mediano nei conflitti, incoraggiano i guerrieri e i partecipanti a competizioni sportive ed elettorali.





La loro musica ha una sonorità particolare in quanto diversamente dalla musica delle popolazioni più vicine che poggia su una scala  pentatonica, utilizza una scala eptatonica, comunque diversa da quella occidentale.
Gli strumenti musicali dei griots sono la Kora, un'arpa a 21 corde diffusa nell'area mande, il belafon (uno xilofono con tasti in legno) e lo ngoni (un piccolo liuto a tre o quattro corde).
Questi strumenti sono esclusivamente maschili , mentre le donne (griotte) suonano invece delle campane (karinya).
I griot suonano anche dei tamburi detti dunun e piccoli tamburi parlanti; non suonano però il dejimbe, il tamburo più diffuso nella regione che è legato alla casa dei fabbri.






Altheo "Aperitivo in Concerto": SF jazz Collective.



La storia del jazz rivive con
SF JAZZ COLLECTIVEThe Music of Miles Davis and Original Compositions
PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA




La rassegna quest’anno sarà interamente dedicata all’improvvisazione e alle sue molteplici sfaccettature e declinazioni. La musica improvvisata di origine africano-americana ha posto le sue radici nel legame con la tradizione più lontana, mantenendo con essa un dialogo profondo, intenso ed inesauribile.

Uno straordinario ensemble che già da alcuni anni dedica la propria performance alla rilettura, per autori, dei capisaldi della letteratura musicale. Dopo Ornette Coleman, John Coltrane, Herbie Hancock, Thelonious Monk, Wayne Shorter, McCoy Tyner, Horace Silver, Stevie Wonder, Chick Corea e Michael Jackson, è la volta di Miles Davis. Il SF Jazz Collective presenterà dal palco del teatro Manzoni otto nuovi arrangiamenti delle composizioni di uno dei più grandi innovatori del jazz. 
Apprezzato per l’innovativo approccio al repertorio, Il SF Jazz Collective vanta un “leaderless format” grazie all’attuale formazione di 8 musicisti, ciascuno dei quali riconosciuto solista, compositore e leader di band in proprio. 
L’esito è un’elaborazione autenticamente collettiva, che vive dei contributi individuali di artisti che da anni operano nel campo della musica improvvisata e per i quali è fondamentale non solo l’aggiornamento del cosiddetto mainstream, ma anche la conservazione e l’updating della memoria storica e culturale, il “continuum” del passato musicale africano-americano. 
Il SF Jazz Collective dà inoltre rilevanza al jazz nella sua veste di linguaggio internazionale che travalica ogni confine geografico, provenendo gli stessi artisti da luoghi distanti tra loro, Ohio, Baltimora, Miami, Puerto Rico, Venezuela e Nuova Zelanda.


La formazione: 

Miguel Zenón sassofono contralto, David Sánchez sassofono tenore e sassofono contralto, Sean Jones tromba, Robin Eubanks trombone, Warren Wolf vibrafono, Edward Simon pianoforte, Matt Penman contrabbasso, Obed Calvaire batteria  



Altheo "Passione on the Road": I luoghi dove puoi ammirare la bellezza dell'autunno.







L’estate e le vacanze sono ormai alle spalle, ma per gli amanti dei viaggi si sta per aprire una stagione unica per visitare nuove e bellissime località: l’autunno. Esistono infatti diversi luoghi che sprigionano tutta la loro attrattiva nella stagione autunnaleAtmosfere fiabesche, colori mozzafiato, e un tepore e una tranquillità che l’estate non sa donare: i vantaggi di viaggiare durante l’autunno sono molteplici, da quelli economici a quelli estetici. Nelle cinque località sotto elencate, la meraviglia naturale dell’autunno dà il meglio di sé.
Alaska


In questo stato americano esiste un’area geotermale particolarmente bella in questo periodo dell’anno, le famose Serpentine Hot Springs. Situate all’interno della Riserva Nazionale di Bering Land Bridge, i colori delle piante che ricoprono questa porzione di Alaska ti faranno sentire all’interno di un dipinto.
Patagonia


Terminale dell’America Latina, la Patagonia è uno dei luoghi più affascinanti e selvaggi della terra. Nel mese di aprile, quando in Italia è primavera, in Argentina è autunno, e le praterie sono più belle che mai, circondate dalle montagne aguzze che sembrano incorniciarle di ghiaccio.
Londra


L’atmosfera magicamente malinconica di Londra è ancora più affascinante nei mesi che portano all’inverno: ogni viale alberato, ogni giardino pubblico, acquista delle cromature uniche. Particolarmente suggestivo è Hyde Park, l’area verde più estesa di Londra.
Bohinj


Provincia slovena particolarmente ricca di verde e di natura, Bohinj è famosa per i suoi bei fiumi in cui l’acqua scorre irruente. Durante l’autunno, circondati dai colori delle foglie che cingono i loro letti, i fiumi di Bohinj sono ancora più belli.
Queenstown


La Nuova Zelanda è uno dei paesi più selvaggi del pianeta, e la natura la permea interamente. La stagione autunnale è la più consigliata in cui visitarla. Camminare ad esempio per i viali di Queenstown, una cittadina nella regione di Otago, è una delle esperienze più belle per i viaggiatori che vogliono vivere a pieno l’autunno.