Van Gogh e il viaggio di Gauguin.
Nell’aprile del 1897 Paul Gauguin è tornato a Tahiti da quasi due anni. Le sue condizioni di salute non sono buone e dipinge poco nella natura lussureggiante e davanti all’oceano, e invece molto di più nel suo studio. In quel mese riceve dalla moglie Mette la notizia che la figlia Aline, a poco più di vent’anni, è morta a Copenaghen in gennaio per le complicazioni derivanti da una malattia polmonare. Gauguin è straziato da questa notizia e poco per volta, nei mesi successivi, matura in lui l’idea di togliersi la vita. La malattia e la lontananza pesano in maniera insopportabile. Ma decide che lascerà il mondo dopo avere dipinto il suo capolavoro, un ultimo grande quadro che riassuma il senso del suo viaggio nel mondo e dentro le luci della pittura. Ordina così a Parigi molti nuovi colori e molti pennelli, anche di ampie dimensioni.
A Tahiti si fa cucire una tela enorme, quattro metri di lunghezza e uno e mezzo di altezza. Ricoverato per dei problemi cardiaci nell’ospedale francese di Tahiti il secondo giorno di dicembre del 1897, ne esce subito e pone mano al quadro epocale, uno dei dipinti più celebri dell’intera storia dell’arte. Alla fine di dicembre è terminato e il giorno prima della conclusione dell’anno sale sulle montagne con un vaso di arsenico deciso a suicidarsi.
La quantità ingurgitata è talmente alta che immediatamente rigetta il veleno e in preda alle convulsioni e a dolori atroci resta tra le montagne per un’intera giornata, fino a che barcollando scende verso il suo villaggio per essere curato. Rimane di tutta questa esperienza il quadro celeberrimo, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, che come prestito altrettanto epocale sarà a Genova quale gemma assoluta di una mostra peraltro già straordinaria. Il museo di Boston, presso il quale è conservato, lo concede in prestito per la quarta volta soltanto nella sua storia, e solo per la seconda volta in Europa, dopo Parigi una decina di anni fa. La visita alla mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin assumerà pertanto i connotati di una assoluta straordinarietà, potendovi fare l’esperienza di questo quadro che è una delle rarità a livello mondiale e immaginando che l’incredibile di vederlo in Italia adesso accada. Nessun’altra opera potrebbe tra l’altro significare meglio il senso che del viaggio la mostra genovese intende dare: viaggio come esplorazione geografica, viaggio come spostamento fisico e viaggio nella propria interiorità. Verrebbe da dire che senza questo quadro la mostra non si sarebbe potuta fare e che con quest’unico quadro tutta la mostra si potrebbe fare.
Ma poi l’idea di questa mostra favolosa, composta da 80 capolavori della pittura europea e americana del XIX e del XX secolo provenienti dai musei di tutto il mondo, origina dal riconoscere la centralità della figura di Vincent van Gogh nell’arte dei due secoli considerati. Attorno a questo fuoco che continua a bruciare, si è venuta appunto sviluppando quella straordinaria avventura del viaggio che è il senso vero e profondo dell’esposizione.
Il viaggio da un luogo verso un altro luogo – dunque gli spazi evocati nel sottotitolo – e il viaggio dentro se stessi. Van Gogh li esprime benissimo entrambi, unendoli così nella sua opera. Ed è per questo che addirittura trentacinque sue opere fondamentali (venticinque dipinti e dieci disegni) quasi interamente prestate dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, saranno il cuore e il nucleo di questa eccezionale esposizione genovese, nel passaggio dal buio degli interni olandesi alla lucentezza quasi insopportabile del sole del Sud. E se è vero che Van Gogh ha cercato in nessun’altra immagine più che in quella di se stesso questa fusione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, non poteva che essere il celeberrimo Autoritratto al cavalletto, dipinto nel 1888 ed eccezionalmente prestato per questa occasione dal Van Gogh Museum, la sintesi estrema e perfetta di questa tensione irrisolta tra il viaggio che conduce e il viaggio che sigilla. Non a caso questo quadro, da solo ed emergente dal buio, sarà collocato nella penultima sala della mostra, la cappella dogale, come sigillo prima che giunga l'immagine finale di un covone sorvolato dai corvi, il volo verso i territori di un viaggio apparentemente senza ritorno. Il Covone sotto un cielo nuvoloso, dipinto ad Auvers solo tre settimane prima di morire, sarà per la prima volta esposto al pubblico dopo oltre quaranta anni ed è un altro dei frutti straordinari che nascono nel giardino di questa mostra. Cui si aggiungono, per esempio, alcune delle lettere originali scritte da Van Gogh al fratello Theo e collegate ai quadri esposti a Palazzo Ducale. Brandelli di carta, quasi santini devozionali, che esposti in una sala immersa nel buio non mancheranno di suscitare la più grande emozione.
Dunque al centro starà Van Gogh con tanti veri capolavori, tra i quali è impossibile non ricordare anche la più celebre versione del Seminatore dipinta ad Arles nel giugno del 1888. Ma anche quell’altro quadro famoso, e simbolico quant’altri mai in questa mostra dedicata al tema del viaggio, con le Scarpe di Van Gogh.
E prima e poi si svilupperanno due sezioni, l’una dedicata alla pittura americana e l’altra alla pittura europea.
Dapprima dunque la pittura americana del XIX secolo, pittura che è anche vera e propria esplorazione di territori sconosciuti, enunciazione di uno spazio che si identifica con una nazione nuova. Due pittori soltanto a rappresentare questo anelito, questo pathos, questa forza primordiale che autorizza il viaggio verso l’ignoto di un luogo che si desidera incontrare e quasi abbracciare. Se questo abbraccio non fosse quasi esagerato per la sua dimensione. Edwin Church, il pittore dell’Est, della valle del Hudson, della costa del Maine, e poi Albert Bierstadt, il pittore dell’Ovest, della scoperta di Yellowstone e di Yosemite.
E con un salto di qualche anno, il viaggio sulle rive dell’Oceano Atlantico, e precisamente a Prout’s Neck lungo la stessa costa del Maine, di Winslow Homer. A cavallo dei due secoli, Homer conclude il suo viaggio nella solitudine di acque tempestose, nel buio di un gorgo che si specchia contro la nera nuvolaglia del cielo. Quella stessa costa del Maine che anche uno straordinario pittore come Andrew Wyeth racconterà per tutta la seconda metà del XX secolo raccogliendo la tradizione figurativa oltre che di Homer anche di Edward Hopper, colui che ha saputo isolare il senso del viaggio nella provincia americana all’interno di una muta sillaba, di un impressionante silenzio. Che ha saputo altresì isolare il senso del viaggio interiore in alcune sue celeberrime figure pensose e mute.
Da certe anse di buio e notte di Hopper, la mostra ripartirà per indicare le superfici quasi monocrome di Mark Rothko, per uno dei viaggi nell’interiorità più straordinari che la storia della pittura ricordi. Viaggio che sente le profondità del territorio e delle acque e tutto trasforma in lividi accenni d’onda. Ma che vivrà anche nell’esaltante confronto, fianco a fianco sulla parete, tra i neri e le terre di Rothko stesso e le marine quasi identiche di Turner un secolo e mezzo prima. E poi mareggiate che Richard Diebenkorn rovescia nei suoi fulminanti Ocean Parks, guardando da una finestra alta sul Pacifico il trafficato scorrere dei fili dell’elettricità.
E se qui si chiuderà la sezione americana, quella dedicata alla pittura europea partirà dal viaggio della mente davanti all’infinito di Caspar David Friedrich, una piccola barca che va nella nebbia e si dirige. Mentre William Turner si confonde – materia nella materia, colore nel colore, cenere nella cenere, acqua nell’acqua, fuoco nel fuoco, pittura nella pittura – nel gorgo di un viaggio che sposa la potenza degli elementi.
Il viaggio di Paul Gauguin sarà agli antipodi, e il grande quadro lo rappresenterà tutto, isolato nella penombra di una vasta sala dove avrà tutta l'attenzione, sola luce, concentrata su di sé, mentre immagini proiettate sulle pareti, e musiche, diranno di quel sentimento pieno e caldo, nostalgico e forte. Poi il viaggio di Claude Monet sarà nel recinto protetto del giardino di Giverny, nella fioritura delle ninfee come ghirlande. Il viaggio di Monet è dentro la luce che tocca l’occhio e rivela i colori, ne autorizza la dissolvenza.
Poi ancora il viaggio mentale di Wassily Kandinsky, quel viaggio che ha a che fare quotidianamente con la visione accidentata, talvolta persino malata, che si costruisce nella forma che genera sogni e incanti, tremori e memorie. Viaggio che è cosa prettamente legata alla cultura europea della prima metà del XX secolo. E che a metà di quel secolo, in una sorta di epico, e anche tragico, parallelo con Rothko, vede sulla scena il percorso straziato di Nicolas de Staël, dai muri calcinati di Agrigento, alle figure davanti al mare fino agli strapiombi di Antibes, alti sul cielo violato dai gabbiani.
Ma nel mezzo, monumentale e tragico, accidentato e splendente, Van Gogh continua a giganteggiare, con i suoi campi di grano sorvolati dai corvi o con le fioriture gentili nei parchi. Van Gogh che è il cuore e l’anima di questa mostra straordinaria, che per questo ne allinea tanti e motivati dipinti.
Genova incredibilmente avrà una sublime mostra dei capolavori di Van Gogh. L'epocale prestito del Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? di Gauguin. E accanto a essi tanti altri capolavori da Hopper a Kandinsky.