Goat - World Music di Giammarco Pizzutelli
L’ipnotismo tribale di "World Music” rispecchia in pieno l’atmosfera del paesino di provenienza dell’oscuro collettivo svedese. Korpolombolo è un puntino geografico nel nord-est della Svezia più inabitata, un baluardo del culto voodoo sopravvissuto alle vessazioni crociate durante i secoli bui della Chiesa, dove una sparuta tribù di sciamani ancora pratica arti oscure e alleva renne. Una macchia di terra che interrompe una sconfinata foresta: cupa, tenebrosa, avvolgente, come la loro musica.
Dei Goat si sa così poco che non ci è neppure dato sapere da quanti membri sia, effettivamente, composto il gruppo; c’è chi dice cinque, chi dice tre, c’è chi parla di una line up in continua evoluzione, sicuramente possiamo affermare che un indeterminato numero di musicisti svedesi ci ha dato la possibilità di ascoltare qualcosa di nuovo.
Il nome del disco, fondamentalmente, è una furbata: fa passare inosservate le congas incessanti della sfrenata danza di Run To Your Mama, preannuncia la loro teatralità tribale, conferisce un alone mistico a quei 37 minuti di pura frenesia, che nient’altro sono che una geniale opera rock.
La prorompente voce della cantante, squarcia gli “wah” che aprono Goatman e che la legano alla strepitosa Goathead: una fuga soffocante tra le articolatissime trame della foresta della loro musica, che sfocia, all’improvviso, in un arpeggio etereo che libra alto, lasciandosi alle spalle tutte le distorsioni, le convulse percussioni, gli assoli acidi e deliranti che hanno attanagliato per più di 3 minuti le orecchie dell’ascoltatore.
Ciò che fa di questo disco un piccolo capolavoro è la capacità di sorprendere e l’irresistibile ritmica, elementi che si palesano da questo punto dell’ascolto in poi: prima con Disco Fever ed i suoi toni inaspettatamente surf, poi con la poliglotta, nevrotica, multiculturale Golden Dawn, che si apre, esplodendo, dopo poche parole, quasi sussurrate, che hanno il sapore di una sorta di rivelazione onirica, impregnate di un alone di magia ancestrale.
Let It Bleed, in 4 minuti tra voce, un giro di chitarra molto orecchiabile ed una tromba acidissima si contrappone allo spiazzante e quasi religioso folk di Goatlord, che va a formare, insieme a Det Som Aldrig Forandras, l’unica suite del disco.
Tra cornamuse, bonghi e lievi accenni di chitarra distorta, i quasi 8 minuti di questa nona ed ultima traccia riportano l’ascoltatore alle atmosfere orientali (oltre che ai riff) di Diarabi, la prima traccia dell’album.
E così il cerchio si chiude, ma, fidatevi, si riapre altrettanto facilmente: sono rarissimi i casi in cui non si decida di concedersi un secondo ascolto: ormai si è stregati dall’ipnotica magia voodoo di questi riservati, brillanti, sfacciati Goat.
Tra cornamuse, bonghi e lievi accenni di chitarra distorta, i quasi 8 minuti di questa nona ed ultima traccia riportano l’ascoltatore alle atmosfere orientali (oltre che ai riff) di Diarabi, la prima traccia dell’album.
E così il cerchio si chiude, ma, fidatevi, si riapre altrettanto facilmente: sono rarissimi i casi in cui non si decida di concedersi un secondo ascolto: ormai si è stregati dall’ipnotica magia voodoo di questi riservati, brillanti, sfacciati Goat.
Giammarco Pizzutelli